Stefano Savonitto, cardiologo “di eccellenza”, attualmente Primario di cardiologia presso l’Azienda ospedaliera di Lecco, ha compiutamente “tracciato” le impostazioni e le caratteristiche cliniche delle patologie cardiovascolari nella quarta edizione, da lui curata, del Manuale di Terapia Cardiovascolare (Il Pensiero Scientifico Editore- Otto Parti in 1356 pagine – euro 105,00). L’Opera è frutto di un lavoro svolto da 119 autori provenienti da 38 diverse strutture ospedaliere.
Si tratta di un Manuale dedicato a cardiologi, medici di Medicina Generale, specialisti, operatori sanitari e delle Istituzioni sanitarie. A tutti coloro insomma che professionalmente e con attività multidisciplinare concorrono ad affrontare i vari aspetti e problemi delle malattie cardiovascolari, ancor oggi di vasta incidenza sociale.
Spetta ai medici che leggeranno il Manuale in parola vagliare e valutare con professionale attenzione i contenuti sostanziali di questa vasta Opera ai fini di saperli e poterli trasferire nella pratica clinica a servizio della salute dei pazienti.
Nel Manuale tutti gli argomenti vengono trattati in maniera esaustiva, delineando attività ed aggiornamenti di grande utilità ed interesse per contrastare le patologie in questione. E’ stato delineato il “work in progress” della terapia cardiovascolare. I vari capitoli che compongono il Manuale sono corredati da tabelle e flow-chart decisionali, partendo dal razionale fino alla specifica delle sperimentazioni con un approccio che consente al clinico di seguire il paziente lungo percorsi terapeutici di crescente complessità.
La maggior parte delle decisioni complesse non è basata soltanto su solide esperienze sperimentali, ma sulla capacità e sull’attitudine del clinico ad assumersi la responsabilità di decidere “in base a scienza ed esperienza”. Scopo principale del Manuale è proprio quello di condividerlo in giuste scelte in maniera razionale.
Intervista al dott. Stefano Savonitto che ha curato e coordinato il Manuale di Terapia Cardiovascolare. Buona lettura
Dott. Savonitto, siamo arrivati con successo alla quarta edizione del Manuale di Terapia Cardiovascolare, da lei ottimamente curato, ricordandole che ebbi a recensire le precedenti tre edizioni con la collaborazione de Il Pensiero Scientifico Editore. I contenuti del Manuale sono di grande rilievo clinico. Sarà possibile, in relazione a tali contenuti, seguire il “work in progress” della terapia cardiovascolare, con particolare attenzione alle applicazioni cliniche che ne potranno derivare?
Quando ho iniziato a lavorare sull’ idea del Manuale, nell’ anno 2000, pensavo che, una volta fatta la prima edizione, gli aggiornamenti successivi avrebbero implicato meno lavoro. Invece, la crescita delle potenzialità terapeutiche in questi anni è stata esponenziale, richiedendo una totale riscrittura del Manuale edizione per edizione. Chi ha vissuto questa evoluzione giorno per giorno ha, di fatto, portato un grande beneficio ai propri pazienti. Forse, il Manuale potrebbe essere più agile e dare al medico “istruzioni per l’uso”. Ma la filosofia dell’Opera è piuttosto di dare un’idea del work in progress e creare un “heart team” con il lettore-medico-curante.
Nell’introduzione al Manuale lei precisa che la quarta edizione rappresenta “una impresa formativa più estesa delle precedenti.” A cosa si riferisce quando parla di “impresa formativa” ed a quali soggetti è dedicata? Ai giovani cardiologi ed ai giovani medici? Ed allora le chiedo: a qual punto è la “formazione cardiologica” nel nostro Paese rispetto ai possibili sviluppi della cardiologi?
Il Manuale è un’impresa formativa. E’ molto più di quello che può offrire un congresso o un corso di formazione. E’ l’agorà dei maggiori esperti italiani che mette in ordine le idee, dispensa esperienza discriminante, e propone schemi di terapia a beneficio dei lettori. E tutto ciò in maniera del tutto indipendente. Ho scelto gli autori soprattutto in ragione della loro esperienza e autonomia di giudizio. Troppo spesso ai congressi si sentono relatori che mostrano diapositive senza conoscere i metodi e veramente i dati. La maggior parte degli autori del Manuale sono in prima persona autori dei dati che presentano e delle linee- guida che hanno scritto. Esiste in Italia una formazione indipendente? Esiste uno Stato che finanzia la formazione? Esiste un’Università che si occupa di questo? Purtroppo, anzi di fatto, la divulgazione scientifica è saldamente nelle mani dell’Industria, senza il cui contributo non esisterebbe attività formativa. Ogni volta che vengo invitato da European Society of Cardiology, American College of Cardiology o American Heart Association ai rispettivi congressi a portare la mia esperienza, ho due alternative: o mi pago viaggio e albergo, o mi cerco uno sponsor industriale. L’Ospedale non si sogna neppure lontanamente di finanziarmi, e non mi lascia neppure utilizzare i fondi di reparto che ho creato attraverso le mie attività di ricerca.
Ritengo – è assolutamente il mio parere- che non vi è “vasta adesione” in Italia della Medicina Generale ad assumere specifiche responsabilità nella diagnosi e terapia delle patologie cardiovascolari ed è frequente che pazienti che espongono sintomatologie cardiovascolari vengano subito ‘trasferiti” a cardiologi. In questo modo si pongono in essere visite specialistiche e conseguenti esami, talvolta inappropriati, Una base diagnostico-terapeutica appropriata non può essere costituita dall’opera iniziale dei medici di M.G. salvo successivi appropriati ‘trasferimenti‘ a specialisti?
Vi è stata una lunga fase, fino a 20 anni fa’ (20 anni fa’!) in cui la terapia dei fattori di rischio (non patologie!) cardiovascolari epidemiologicamente predominanti era, di fatto, alquanto specialistica. La terapia dell’ipertensione, delle dislipidemie e del diabete mellito erano specialistiche fin dalla prima battuta. Poi abbiamo avuto a disposizione farmaci efficaci, ben tollerati e privi di effetti collaterali, o comunque con varie alternative in caso di intolleranza. Io trovo attualmente sorprendente che un iperteso non complicato sia inviato a fare inutili esami diagnostici e visite specialistiche, quando basterebbe iniziare una semplice terapia e/o suggerire norme igieniche di prima battuta. La maggior parte dei farmaci di provata efficacia e tollerabilità sono ormai di facile prescrizione e basso costo. L’apporto dello specialista andrebbe richiesto solo in caso di inefficacia delle terapie iniziali. La maggior parte degli “approfondimenti diagnostici” sono del tutto inutili. Non è piaggeria verso “less is more”. E’ quello che ho sempre praticato. In campo cardiologico, non esiste lista d’ attesa per le cose utili, ossia per l’emergenza e per i casi complessi.
Sul contenuto del Manuale che cosa può essere detto ai pazienti cardiopatici, sempre in attesa di interventi e terapie più efficaci e sicure? Ritiene che si possano “divulgare” con terminologia appropriata alcune parti del Manuale stesso, magari quelle riferite a malattie a più ampia incidenza?
Mi piacerebbe molto scrivere un “Manuale di Cardiologia Popolare”. Soprattutto per contribuire a ridurre l’inutile ansia e l’eccesso di inutili esami diagnostici, ma anche aiutare i cardiopatici veri a condurre una vita il più normale possibile. Se trovassi un Editore che mi assicura ampia diffusione, mi ci metterei.
Lei afferma nell’introduzione che l’intero Manuale ha caratteristiche anche “multidisciplinari” e che il concetto di “heart team” dev’essere esteso ad altri specialisti, che lei cita. Ma gli ospedali italiani in generale, sulla base delle sue esperienze e conoscenze, sono pronti ed hanno le capacità organizzative ad avere i citati “heart teams”? Ed in questi teams non dovrebbero essere incluse anche figure di psicocardiologi, dati i gravi problemi di connessione tra psiche e cuore? Perfino l’incidenza di molte aritmie viene “imputata” a tale connessione…Qual è il suo pensiero circa i “problemi psicologici” dei cardiopatici?
Dedico molto tempo a dialogare con i miei pazienti in Ospedale e con i loro familiari. Il paziente va rassicurato, mentre molti medici lo terrorizzano. Va sempre rinforzata la speranza. Va stimolata l’ironia, il senso dell’umorismo, il “cotidie morimur”, anche di fronte alle invitabili storie ad esito triste. Indubbiamente c’è molta ansia, intrinseca nella malattia. Osservando le famiglie, vedo molte realtà avvolte in se stesse, ma anche molte persone che lottano unite fino alla fine inevitabile. E’ orrendo vedere medici che non osservano e non pensano agli aspetti psicologici adducendo a scusa il peso della burocrazia, dei turni, della stanchezza. L’ incontro con le storie e con le persone è il succo e il cuore della nostra professione.
Nel Manuale non è stata trattata la cosiddetta telecardiologia, che pure si è sviluppata in molti Paesi, tranne che in Italia dove sono stati creati solo progetti a macchia di leopardo senza alcuna coordinazione tra le regioni e con linee d’indirizzo nazionali sulla telemedicina, che sembrano un “reliquiario” di buone intenzioni.
Nel capitolo 18, viene brevemente trattato il ruolo della telemedicina nel controllo dei pazienti con insufficienza cardiaca. Il telecontrollo dei portatori di pacemaker e defibrillatori è una realtà abbastanza diffusa ed è quella per cui vedo le maggiori possibilità. Anche alcuni aspetti di controllo metabolico (ad esempio della glicemia) potrebbero essere amplificati. Al di là di questi aspetti, credo piuttosto nell’ educazione e responsabilizzazione (“empowerment”) dei pazienti e dei familiari.
Infine perché si svolgono tantissimi congressi e convegni cardiologici, che spesso sono la ripetizione di precedenti eventi e rilevano solo aspetti che non coinvolgono i pazienti cardiopatici? Non sarebbe il caso che in tali eventi si aprisse una “finestra” dedicata ad un qualche “dialogo” tra medici e pazienti? Anche in questo modo – penso- si avvicinerebbe sempre di più la Scienza alle “persone normali”. Questo svilupperebbe di più la “cultura della salute”, che fa parte, di diritto, delle “Scienze della vita”. Qual è il suo parere circa questa singolare proposta?
Penso che uno spazio nei congressi locali potrebbe essere una buona iniziativa, magari coinvolgendo le Associazioni di pazienti. Ma soprattutto la Scuola potrebbe fare molto di più per educare i ragazzi sia sulla cultura della salute che sul soccorso di base. Avere i ragazzi sotto mano per 13 anni e non insegnare loro queste cose è un’enorme occasione persa.